domenica 24 febbraio 2008

1999 - Slittamenti


PERCHE’ SLITTAMENTI
“Slittamenti” è il titolo che abbiamo voluto dare a questa mostra e alla piccola tavola rotonda annessa, e non a caso.
Di sconfinamenti, contaminazioni, dislocamenti infatti si è trattato : uno sguardo oltre i severi e obbligati sentieri rigidamente tracciati ma, soprattutto, un desiderio, una forte, sentita necessità per tutti di incontrarsi, confrontarsi e ritrovarsi finalmente e un bisogno, per molti, di superare cristallizzati codici artistici “tradizionali”.
Sconfinamenti, contaminazioni, per la presenza di chi solo lateralmente si è avvicinato alla poesia visiva senza volerne ufficializzare la pratica ma come intimo percorso personale e di chi, invece, ha più diretta discendenza da quel laboratorio della sperimentazione che, dalla fine degli anni cinquanta e per oltre trent’anni, ha posto, con rigore e determinazione, nella relazione fra scrittura e immagine le ragioni stesse del proprio fare artistico. In quella “esplorazione - come sostiene Giovanni Amodio - sulla parola, sulla lingua che in senso esplicativo e in direzione concettuale, rompe gli schemi e le convenzioni e si propone in forme e in contenuti anche spericolati : Poesia d’immagine. Immagine della poesia”. Terreno nel quale gli artisti, “ alla ricerca di un recupero della carica comunicativa della parola e dell’immagine, - come opportunamente ha sottolineato Annamaria Janin nella presentazione alla mostra, attraverso un puntuale e argomentato percorso storico sulla visualità poetica - hanno inteso esprimersi tramite una costante interazione non solo tra parola e segno grafico, ma anche tra colore, materia, movimento, suono e, più recentemente, icone ipertestuali”. Scivolamento, strappo, slittamento, quindi, sulla piattaforma del già classificato, per ripartire da una sorta di quota zero dove ribollono umori diversi e si confondono e spandono altri vapori, senza peraltro, ed era evidente nelle premesse, voler sostenere precisi fondamenti formali o voler riproporre stancamente l’ormai logoro schema dell’onda dopo onda. Con l’auspicio ma anche con la consapevolezza, e questo la mostra ha evidenziato, di un impegno, come ha recentemente scritto Primo Pantoli , nella “ricerca di linguaggi vecchi - nuovi per comunicare complesse e più attuali dimensioni storiche”. La mostra voleva essere anche una provocazione, apertamente dichiarata, per creare un’occasione d’incontro e di discussione fra artisti e non. E alla provocazione hanno risposto in molti, sia in occasione della mostra e sia in occasione del dibattito. Alla fine la sensazione è stata quella, proprio nel momento più acuto di una crisi profonda come quella che stiamo attraversando, di un generale impegno ritrovato e di un desiderio di rinnovarsi che fa ben sperare. Alla manifestazione hanno dato un valido contributo, con letture di poesie, anche gli attori Rossana Abis, Rita Pau, Enzo Parodo e, con una apprezzata performance, Korinna Kreuzmann, euritmista, e Clara Murtas, attrice, che hanno rappresentato “Cantetto senza parole” di Ungaretti. Vogliamo ringraziarli, unitamente a tutti gli artisti e ai relatori che hanno reso possibile la buona riuscita del progetto. E, in particolare, Annamaria Janin per il pregevole testo di presentazione nell’opuscolo che accompagnava la mostra. Un ringraziamento doveroso all’Assessore alla Cultura della provincia di Cagliari Adriano Salis che ci ha sostenuto in questa fatica e un mio particolare grazie a Salvatore Melis, Gianni Atzeni e Assunta Pittaluga per il ruolo svolto nella cura del progetto.
Testo di Italo MEDDA

SALUTO AL CONVEGNO
Tra le espressioni artistiche, la pittura e la poesia possono essere considerate le più universali, senza limiti e frontiere, capaci di favorire con il loro linguaggio l’esaltazione delle migliori qualità dell’uomo nella pacifica, costruttiva e solidale convivenza tra i popoli.
Quest’Assessorato plaude, pertanto, a questa iniziativa che ha dato voce all’espressione di oltre quaranta artisti, italiani e stranieri, offrendo loro l’opportunità di confrontarsi con rinnovato entusiasmo. Esprimiamo, quindi, all’Associazione Rainbow P.A. il più sentito ringraziamento per l’impegno profuso nella ricerca artistica, nel rispondere al desiderio generale di rinnovarsi, per una nuova funzione dell’arte.
Ai partecipanti al convegno, porgo il mio saluto e quello della Provincia di Cagliari con l’augurio a mantenere vivo l’impegno artistico e a contribuire alla formazione intellettuale e morale dei cittadini nel segno del progresso e della pace.
L’Assessore alla Cultura Adriano SALIS
CANTOS
Tra le cose che sono apparse a Cagliari di questi tempi, la mostra “Slittamenti” - con l’annesso piccolo dibattito da me curato - è stata senz’altro un momento fertile e ricco di stimoli per fare il punto su dove sta andando l’arte cittadina. Vorrei tralasciare però gli aspetti più propriamente storici che interessano l’argomento, anche se ritengo utile ricordare il perché e le finalità di questo progetto. La mostra, e così anche la conferenza ad essa legata, si pone come pietra miliare di quella ricerca che l’associazione Rainbow propone da tempo : l’indagine sul rapporto tra immagine e parola. Dapprima Libri d’Artista, Libri oggetto, opere uniche e irripetibili, terreno d’incontro di vari linguaggi, quindi la parola nella sua più alta veste : la Poesia (nel senso letterale) e la Poesia Visiva (nel senso esteso). Ricordiamo a tale proposito tutte quelle opere cubiste, futuriste, situazioniste, neo dadaiste e pop che inserivano lettere o parole comprensibili o gratuite. Sono stato aiutato nell’organizzare e gestire la conferenza - reading da Primo Pantoli e dagli amici di “Erba Foglio”, una rivista militante che ha già dodici anni di attività : dodici anni di triboli, di sopravvivenza, ma soprattutto di alta poesia. E questi amici, Alberto Lecca, Alessio Liberati e Arnaldo Pontis, tutti e tre poeti, mi hanno, e ci hanno fatto capire (assieme a chi esponeva e ai testi di Gaetano Brundu e di Giuseppe Pettinau) il perché la letteratura e le arti visive, con tutte le sinergie che creano, non siano cadute ancora in desuetudine. I punti toccati hanno spiegato quale è stato il percorso che questo modus ha avuto. Ha ricordato Pantoli la necessità di utilizzo di un testo anche nei quadri. E la necessità sua e di Brundu di travalicare, al tempo del Gruppo d’Iniziativa, il solo intervento pittorico e integrarlo con scelte esterne, e perché no, legate alla letteratura e alla pubblicità e agli articoli di giornale e agli slogans politici. In posizione critica Giuseppe Pettinau, allora impegnato nel versante delle pure immagini. Tutto questo rappresentava l’opportunità di ovviare alla scelta tra scrivere e dipingere, per inventare un genere nuovo. Genere che, anche se sincretico, ha avuto un’evoluzione diversa e parallela rispetto alla Penisola. Se l’arte dell’ultimo cinquantennio è stata tutta arte concettuale, la poesia visiva (o concreta o verbo/visiva o art & language o come la vogliamo definire) con i suoi presupposti ne costituisce uno dei momenti strutturali primari, se pure clandestinamente. Nel senso che non ha avuto la ricaduta degli altri momenti della neo avanguardia, sia a livello di pubblico, sia a livello di mercato, sia come seguito tra gli artisti. Ma torniamo ora nello specifico della mostra e della conferenza. Innanzitutto grazie a tutti quelli che vi hanno collaborato, da Annamaria Janin, autrice della prima presentazione, ai curatori (nelle persone di Italo Medda, Gianni Atzeni e Salvatore Melis), agli attori che hanno proposto le letture all’inizio e la performazione alla fine della rassegna. Penso però sia il caso di soffermarci su alcune riflessioni. La mostra proponeva poche poesie visive - nel senso stretto - e molte opere che hanno più a che fare con la pittura e con l’assembling art. Quadri, oggetti, installazioni imperavano al piano di sopra di via Ada Negri, anche col merito di documentare la storia oltre ché dare soluzioni formali (e torno a volgere lo sguardo verso Pantoli, Brundu, Pettinau), ma connotando l’esposizione come una mostra di arti visive : e per questo motivo si è dato il titolo ...... Slittamenti e compenetrazioni da un linguaggio verso altri, con andata e ritorno. Interazioni di stili, di modi e finalità. Ma, oramai, la pittura ha talmente tante influenze che non c’è niente di strano in ciò che abbiamo visto alla G28. Tanto da considerarla una mostra ( di pittura e dintorni) perfettamente adeguata e in sintonia con i tempi che viviamo. Più legata agli aedi del passato, invece, e perché no anche all’improvvisazione dei cantadores, ma, anche direttamente cablata al presente accelerato della computer age, è stata la chiacchierata che si è svolta nel teatrino al piano inferiore di via Ada Negri il 28 marzo 1999. Carte elettroniche, cioè ipertesti, interpretabili dallo spettatore a trecento sessanta gradi, quindi scegliendo di seguire la traccia dell’autore (Arnaldo Pontis), o inventarne una nuova con l’ausilio delle parole sui tre monitors. L’hanno già fatto Robbe - Grillet e Gadda (in maniera analogica e col supporto cartaceo), ribaltare il testo tante volte e non avvicinandosi neanche lontanamente alla moltitudine di variazioni che questo espediente può dare. Ma nel lavoro di Arnaldo c’è soprattutto la ricerca di un cut - up barrousiano/informatico, il tagliaeincolla. Forse Tzara e Ball, o Pignotti e Isgrò, avrebbero già inventato tutto questo, ma la memoria magnetica rende tutti più attivi. In effetti è quello che Duchamp, il divino maestro, aveva enunciato. L’arte è di tutti, la possono praticare tutti. Infine, Alberto Lecca. La sua poesia finale - qui riportata - è stata un canto nomade nato dal cuore, scritto per l’occasione, scritto durante l’occasione. Bello, triste e sentito, con l’incanto della lirica, ha riportato la platea alla realtà del quarto giorno di guerra.
Testo di Massimo Antonio SANNA
I BARBAR INTORNO A NOI
Si fa presto a dire poesia visiva, si fa presto a entrare in un ambito di sensazioni affidate principalmente ai parametri della parola, scritta ma anche detta o declamata, ed a quella dei segni e dei colori. Forse si fa meno presto a far scoccare la scintilla, a trovare quella dimensione espressiva in cui due elementi sono fusi inscindibilmente a produrre una nuova realtà espressiva assolutamente diversa dai due componenti di partenza, insomma la, citatissima, logica della parola portemanteau. La serie Maledetti Maledetti penso vada vista come testimonianza di disagio sociale, ma inevitabilmente anche esistenziale, in particolare per la fastidiosa oppressione da parte della burocrazia e di molte istituzioni. La difficoltà e forse l’inutilità di portare avanti con un minimo di razionalità le nostre azioni, le nostre ricerche e le nostre realizzazioni, la nostra vita. In quest’ambito c’è anche la serie dei libri inesistenti, che non ho scritto e non scriverò mai ; dal libro di poesie al romanzo alle diverse raccolte di saggi. Il titolo non può essere un altro, è sempre quello, Maledetti Maledetti, ripeto Maledetti Maledetti. Harold Pinter, volato nel gennaio 1999 da Londra a New York in occasione di alcune repliche di Ashes to Ashes e di The Hothouse, confessa in un’intervista al New Yorker : “Io sono braccato, sono braccato dagli atti barbari attorno a me .... L’idiozia e l’inciviltà della gente al potere. Dovunque io vada, sono braccato da queste cose .” (The New Yorker, Feb. 1, 1999, pag. 22). Maledetta umanità, quando penso alle guerre alle crudeltà alle oppressioni di vario grado, alle ingiustizie istituzionalizzate. Maledetta società quando penso all’omologazione, all’intruppamento e all’indottrinamento forzato in direzioni univoche e prive di dialettica, all’imposizione di questo o quello stile di vita. Trallallera - trallallà quando penso che tanto non c’è nulla da fare e che anch’io farò bene a sbattermene allegramente e vivere di conseguenza visto che no c’è verso di cambiare il mondo. Ma non è meno difficile cambiare noi stessi. La maledetta burocrazia, con le sue storie di ordinaria follia , come perno di piccole e grandi sopraffazioni e infamità, come colonia di misteriosi insetti famelici che cerca continuamente di mettere la nostra vita, i nostri giorni, le nostre ore, tutti i nostri pensieri, alla sia mercé. Maledetta società e maledetta umanità, nel contempo, quando penso a quelli che ci vogliono concilianti e conciliati, zitti, felici e contenti anche quando non possiamo esserlo ; quando penso a tutti i tartufi che guardano con terrore verso chi protesta e verso chi esercita un minimo esercizio di spirito critico. Finora ho indicato una serie di elementi contingenti del mio recente lavoro in questo ambito che in un modo o nell’altro possiamo definire un ambito di poesia visiva. Naturalmente ci sono momenti meno conflittuali o drammatici, momenti che non hanno il dies irae come naturale colonna sonora. Allora è la parola élan o l’esortazione adelante ad essere composta sulla pagina insieme ai segni più specificamente grafici o pittorici. Non ha molto senso in quest’occasione, che io parli delle implicazioni estetiche o della collocazione di quest’esperienza nel vario e articolato movimento di poesia visiva nell’ambito del sistema dell’arte presente e passato. Potrei divertirmi a esplorare il variegato rapporto di queste esperienze con il mercato, cercare di individuare le nefandezze che in ambito di mercato sono così frequenti e multiformi, e che superano per fantasia ed invenzione gli sforzi stessi degli artisti creatori per antonomasia. Che sia questa la degna poesia visiva dei nostri giorni e delle nostre latitudini ? Che sia questo il vero bersaglio a cui rivolgere il mio Maledetti Maledetti ?.
Testo di Gaetano BRUNDU
IMMAGINE E SCRITTURA
Alla fine degli anni ’50, già cominciai confusamente a capire in quale direzione avrei cercato di esprimermi. Ma non avevo ancora ben chiaro quale strumento tecnico fosse il più idoneo a gettar fuori tutto quello che mi si agitava all’interno. Pensieri, emozioni, sentimenti, ognuno di questi sembrava aver bisogno di uno strumento specifico. Come sempre, facevo un pò di tutto. Nel cassetto segreto (ma non tanto segreto) c’erano fogli di poesie, abbozzi di racconti, di romanzi, di opere teatrali, idee par il cinema.... Poi, naturalmente, c’era tutto l’armamentario delle opere della visione, olii, tempere, incisioni, fotografie, e i loro derivati, mischiati, stravolti. Più tardi, e casualmente per una imprevista richiesta da parte di Roberto Olla della sede regionale della RAI che iniziava allora la sua produzione, feci le prime esperienze di scenografia e di grafica pubblicitaria. Ma fra tutti questi strumenti e mestieri, tutti estremamente affascinanti, non sapevo quali scegliere. Insomma non sapevo cosa avrei fatto da grande. E fortunatamente ancora oggi non sono in grado di dire cosa farò da grande, né so cosa farò domani. Ciò è molto stimolante. Per la verità, devo dire, che io sono di quelli che credono nel contenuto di un messaggio, se per contenuto intendiamo, ovviamente, non un programma prefissato, ma tutto quel mondo anche confuso, anche contraddittorio, che si agita dentro un uomo, un uomo immerso nel suo tempo e nella società del suo tempo. Quell’uomo, che nel periodo storico che viviamo è dilaniato e smembrato da mille contrasti, un uomo che boccheggia fra mille pressioni e condizionamenti, alla drammatica ricerca di qualche brandello si se stesso, di qualche verità anche effimera, a cui appoggiarsi per sopravvivere. La scienza, la tecnica, la politica, perfino la ragione filosofica, si sono dimostrate impotenti di fronte alla grande rivoluzione in atto in questo fine millennio. Noi oggi navighiamo su relitti, i relitti di tutti i principi in cui abbiamo creduto, su zattere incerte che ci costruiamo per sopravvivere, e non vediamo, e non possiamo vedere, gli approdi ai quali ci farà giungere, domani, la storia. L’arte - e non è la prima volta - ha saputo nel nostro secolo vedere più lontano della scienza e della filosofia (e tutte le avanguardie storiche sono la testimonianza di questo incipiente disagio), e anche oggi è la più lacerante testimonianza della crisi del nostro tempo. Lo denuncia se non altro la Babele dei suoi linguaggi, la perdita dei riferimenti storici, la fine delle avanguardie, la logica demenziale che fa da inutile supporto alle sue contorsioni. Ma ogni crisi storica contiene in sé i germi di una nuova epoca, e i valori per una nuova umanità. Alla ricerca di questi valori, io credo che oggi debba dedicarsi l’artista, proprio perché l’arte è, nel nostro tempo, il punto di osservazione più sensibile e lungimirante. Ma quale linguaggio, quale strumento, quale arte può offrirci la libertà e la spregiudicatezza da un lato, e, dall’altro, l’acutezza, di cui ha bisogno la nostra ricerca. La pittura ha il pregio dell’immediatezza e della spontaneità, ma resta confusa, ambigua, generica. La parola è più meditata, più determinata, ma ha più limiti. La parola, pur nelle sue infinite sfaccettature e connotazioni, rimane ancorata a significati troppo precisi e condizionati dall’uso. Un romanzo, per essere costruito, ha pur bisogno di un minimo di struttura codificata, di un prima e di un dopo, di un luogo, dunque di una logica più o meno aristotelica. Nella sperimentazione letteraria - lo si è visto - non si può andare oltre “Finnegans wake”. Qualunque scritto diverrebbe illeggibile. Talvolta ho pensato al cinema o al teatro sperimentale, ma con quali mezzi economici ? Sono imprese pazzescamente costose e certamente opere di quel tipo non danno nessuna garanzia di rientro e di guadagno. Ma come si vede stiamo già parlando di arti che rimescolano le carte, che sono caratterizzate dalla mescolanza dei linguaggi. Così, fu proprio il bisogno di offrire una chiave di lettura non troppo ambigua, che, nel 1958, i titoli delle mie opere cominciarono ad allungarsi, a invadere l’immagine, a specificare un discorso che non volevo ambiguo. Altre volte, la sequenza di qualche verso aggiungeva complessità, approfondiva e scavava polivalenze e sovrapposizioni di letture e significati. “Studio 58” fu, in Sardegna, la prima formazione sperimentale e nel suo programma c’era chiaro il superamento delle arti e della cultura tradizionale. Era la prima volta poi che in Sardegna gli artisti, i pittori, si misuravano con la cultura a tutto campo, rifiutando in fondo la specificità del loro mestiere. Io ero come sempre indeciso fra arte e letteratura. Mazzarelli, Franco Caruso scrivevano spesso. Brundu scriveva racconti e nei suoi disegni per Ezra Pound, i versi del poeta volteggiavano fra le immagini. Scrivevamo preferibilmente in inglese io, in francese Brundu, e anche questo era un segnale inequivocabile. D’altronde conoscevo bene miniature e calligrammi medioevali, i carmina figurata, la grafica orientale. I polittici del due - trecento mi stimolarono ricerche sul fumetto, con le sue sequenze temporali, la parola spesso scritta sul dipinto. Poi furono i giornali murali della controinformazione popolare a suggerirmi nuove interferenze fra parole e immagini : i tatzebao, i volantini politici, il manifesto sui muri, le pagine stesse dei quotidiani mi offrirono nuovi spunti. Si chiarì in noi il rifiuto di produrre solo oggetti estetici da appendere al muro e il bisogno profondo do provocare, di urlare, per essere ascoltati, e per indurre problemi e pensieri. “Studio 58” si mise in luce con un intervento ad un Convegno sulla cultura, organizzato a Nuoro dalla rivista Ichnusa e da Antonio Pigliaru. La relazione fu sul rapporto fra arte e cultura. Nel 1963, da una costola di “Studio 58” nacque il “Gruppo di Iniziativa”, la cui dicitura completa era “per un impegno democratico e autonomistico della cultura in Sardegna”. Intellettuali e artisti, per la prima volta, in Sardegna, si unirono e operarono assieme per un programma politico. Lo dichiarammo subito e naturalmente subito fu scandalo. Da tutte le parti si cercò di farci tacere. Ancora oggi, nel silenzio che continua a pesare sul Gruppo, c’è il riflesso dell’ostilità che trovammo : ostilità aperta da parte del centro e della destra, incomprensione e malcelato fastidio nella sinistra. Il Gruppo d’Iniziativa rappresentò, comunque lo si voglia giudicare, una delle rare volte, se non l’unica, che l’arte in Sardegna fu allineata alle ricerche nazionali e in qualche caso perfino seppe anticiparle. E questo credo sia il caso del Manifesto, sottoscritto da me, Brundu, Mauro Staccioli e Luigi Mazzarelli. Nel Manifesto, come è noto, dichiaravamo l’insufficienza e l’ambiguità dell’immagine e la necessità di ricorrere a scritte, simboli e quant’altro potesse servire ad indirizzare verso una lettura univoca l’immagine stessa, qualora si volesse darne un messaggio politicamente chiaro. Negli studi collettivi che facevamo, avevamo constatato che perfino un quadro politico come Guernica poteva essere frainteso, svuotato del suo messaggio e strumentalizzato a fini reazionari, come d’altronde certa critica farà di lì a poco, vanificando il discorso politico di Picasso e di tanti altri. Non ci si deve meravigliare di queste nostre esigenze. Allora la lotta era frontale e totale : sapevamo che l’esito di quella lotta avrebbe determinato il futuro dell’umanità, come abbiamo visto in questi anni. Allora la società, l’arte e la vita erano strettamente legate. Alla vita e all’arte chiedevamo significati e valori precisi. Si badi bene, però, - e questo ci differenziava dall’ottusità di certo realismo socialista - che mai si venne meno ad altre sue esigenze, oltre alla chiarezza politica del messaggio : l’esigenza della ricerca sul linguaggio, per trovare nuove forme espressive per i nuovi contenuti che la storia ci poneva di fronte, e la dimensione fortemente poetica, direi lirica e intimistica di questi messaggi. Non era l’espressione codificata dell’uomo di partito, era l’urlo o la dolcezza dell’individuo, del singolo individuo alla ricerca di nuovi valori e di un nuovo linguaggio per esprimerli. Era sostanzialmente una battaglia politico - esistenziale (le mie radici culturali erano quelle dell’esistenzialismo sartriano), che la sinistra collettivista non poteva comprendere, né accettare nella durezza di quei tempi. Certo avevamo conosciuto il Gruppo ’63 di Miccini e Pignotti, ma noi eravamo già avviati ad una ricerca che aveva sue necessità e caratteristiche specifiche, lontane da estetismi (io dichiaravi di voler fare quadri sgradevoli) e da concettualismi che a noi sembravano futili, di fronte alla drammatica realtà della vita. In fondo non credo che ora le cose siano molto diverse e io penso che l’artista debba oggi ritrovare il coraggio delle cose da dire. La realtà è ancora più drammatica, anche se tutto viene volutamente smorzato dalla spettacolarità. L’arte spettacolo però mostra già la corda : tutti gli artisti sono bravi, tutti i quadri sono belli, belli e noiosi. Perfino la TV, la politica spettacolo, la guerra spettacolo. Però i quadri non interessano più a nessuno, i romanzi li leggono gli scrittori, le poesie i poeti, in TV si applaudono fra di loro, le masse non vanno più a votare, le mostre le vanno a vedere gli artisti. Tutto è bello, tutto è noioso, anestetizzante. Tutti dormiamo la sera davanti al televisore. Dovremmo ripensare seriamente a tutto questo. Forse è tempo che l’artista si riprenda il proprio senso e la propria funzione. Forse gli altri non ci ascoltano perché non diciamo nulla. Questa mostra un po’ mi rincuora. Sembra che la poesia visiva o, se preferite, le contaminazioni, gli slittamenti (non perdiamoci troppo nelle parole !) abbiano la capacità di costringerci a confrontarci con le cose da dire. La parola scritta sembra avere ancora la forza di piegare l’immagine, di colmarla e di far sì che il significato (tanto mal visto dalla moda attuale) riprenda vigore e funzione. Dovremo riallacciare un discorso prematuramente interrotto. Questa mostra è una buona occasione per farlo.
Testo di Primo PANTOLI
IL DUBBIO
Premetto di conoscere molto superficialmente opere di “poesia visiva” e di non conoscere affatto le modalità storiche del suo sviluppo, dagli esordi futuristi sino ai nostri giorni. Tuttavia, da appassionato di poesia, nel senso tradizionale del termine (e da pittore che continuamente cerca una qualche relazione con essa), tenterò di avventurarmi in alcune considerazioni di rilievo che potrebbero rivelarsi utili, anche al di là dello specifico. D’altronde, il titolo stesso della mostra “Slittamenti - Intorno alla Poesia Visiva” lascia largo margine di libertà, agli artisti partecipanti, per interazioni non ortodosse, per non codificate simbiosi tra differenti ambiti semantici. Ricordo che già il “Gruppo d’Iniziativa” - di cui facevo parte - intorno ai primi anni Sessanta si mosse in questa direzione. Personalmente, non firmai il manifesto del ’64, poiché ritenevo che fosse carente di indicazioni metodologiche riguardo al rapporto tra le configurazioni della parola scritta e quella dell’immagine pittorica. Per quanto concerne i criteri propri della poesia visiva sono del parere, comunque, che essi possano fungere - al di là delle intenzioni dei singoli operatori - da efficacissimi strumenti per un disoccultamento del “corpo profondo” del linguaggio, di una sfera “scritturale” soggiacente sulla quale si sono sovrapposte, per secoli, le più disparate tendenze fonocentriche della cultura espressiva occidentale. Tuttavia, non essendo d’accordo con S. Derrida - massimo esponente contemporaneo della critica del fonocentrismo - sulla nozione di archi - scrittura quale fondamento ultimo rimosso, perché viziato da ontologismo, reputo, tuttavia, che tale nozione possa assumere una più attendibile dimensione di verità solo all’interno di impalcature gnoseologico - dialettiche di ampio respiro : impalcature già in larga misura tracciate dall’Estetica adorniana. Ma riprendiamo più da vicino il discorso sulla poesia visiva. Alle serie significanti di pertinenza propria della letteratura se ne aggiungerebbe dunque un’altra, di carattere spaziale - visivo (articolazione tipologica del gràphein), che fungerebbe da forza motrice delle altre, o, se si preferisce, da unificazione - separazione di esse per ulteriori diramazioni lungo tragitti imprevedibili di sconfinamento (utilizzo, qui, per comodità di esposizione, una terminologia tipicamente tardo - strutturalista, riservandomi di trattare, in altra sede, dei gravi rischi inerenti ad una mancata dialettizzazione tra categorie estetico - filosofiche e categorie linguistiche). Ma la questione si complica notevolmente quando si arriva al nocciolo di essa : alle connessioni complesse tra le serie significanti e le serie significate. Si ammette - e non si può non convenirne - che le prime si intreccino senza posa alle seconde pur rimanendo esterne, producendo a loro volta un “fluttuato” che però non si “fissa”, non si ipostatizza mai in totalità compiuta di concetti. L’eccedenza del significante (perennemente fluttuante) funge così da chiave di volta per comprendere l’instabilità del senso, i “vuoti” come condizione dei “pieni”, la loro trasmutazione infinita che nell’attimo fa esplodere l’evento. Ma nella poesia visiva l’evento si configurerebbe come pluridimensionale, situato com’è a cavallo tra discipline diverse. Certo il versante letterario continuerebbe a prevalere, ma sarebbe difficile dar conto del sincretismo ottenuto. Peraltro, nello “slittamento” intorno ad essa - come indica il titolo della mostra - se è la pittura (od altro) ad appropriarsene, si invertono le posizioni. E qui la difficoltà maggiore nasce dal fatto che le serie significanti della pittura (di elementi grafici, di forme, di colori, ecc.) e le correlative serie significate non sono della stessa specie. E non essendoci neppure parallelismo tra le due arti, bisognerebbe tematizzare a fondo le rispettive “discontinuità” interne, liberi da pregiudizi.
Testo di Giuseppe PETTINAU
POESIA VISIVA O DELL’AMBIGUITA’
Nell’insieme delle opere presentate alla mostra “Slittamenti” possiamo individuare almeno due tendenze. Fatta eccezione per l’opera di Arnaldo Pontis, che meriterebbe un discorso a parte relativo all’ ipertesto poetico, forse la più interessante prospettiva di sviluppo per la poesia nel secolo venturo, si può parlare di poesia visiva (per la maggior parte delle opere) e di poesia concreta (per l’opera del sottoscritto e di Diotallevi), due tendenze che in questa mostra sono distinguibili l’una dall’altra in maniera abbastanza netta. Adottando la sintetica definizione di Spatola, possiamo dire che “il poeta concreto usa le parole come immagini, mentre il poeta visivo si serve delle parole e delle immagini”. La Poesia Concreta fu il primo movimento di arte visuale nato dal versante letterario. Da qui la sua caratteristica fondamentale : l’attenzione costante ai mezzi propri della scrittura e in particolare alla parola come realtà fisica, “concreta” appunto. La critica semantica non ha più un ruolo privilegiato ma paritario rispetto agli altri elementi costitutivi della parola, ossia la forma visuale e il suono. La Poesia Visiva, nata nei primi anni ’60, si presenta invece come un’estensione della poesia, che mira a un’interazione fra parole e immagini visive ; “la figura si inserisce nella parola mentre la parola entra nella figura in rapporto comunicativo di interazione dialettica” (L. Pignotti). Dobbiamo però constatare che ormai poesia concreta e poesia visiva sono termini usati in riferimento a molte esperienze diverse e quindi non sono esenti da ambiguità. Ma l’ambiguità a me pare sia dovuta soprattutto alla presenza in essi della parola poesia. Il vocabolario ci dice che poesia è l’arte di comporre versi (prima accezione) o, più generalmente, di esprimere in forma d’arte la propria visione del mondo (seconda accezione). Considerando quest’ultima accezione, sarebbe poesia anche la prosa, la pittura, il cinema, la fotografia ecc. , con il risultato di non poter distinguere, se volessimo farlo, la poesia dalla prosa e dalle arti puramente visive. La prima accezione del termine ci permette di separare (anche se non in maniera precisa) la poesia dalle arti puramente visive, dato che per queste non si può parlare di verso. Anche in questo caso però poesia e prosa sono, a mio parere, indistinguibili : ormai il verso non è più solo da riferire alla poesia metrica ma può essere anche un verso libero, per cui della parola verso conviene accettare il significato più sicuro e più generale, cioè l’andare a capo. Sorge allora il problema di stabilire a che punto del foglio si deve andare a capo per poter parlare di verso. Esistono poesie che occupano tutto il foglio, esattamente come una pagina di un romanzo o di un saggio ; esistono anche romanzi e opere di filosofia scritte con una tale densità di immagini da poter essere considerate poesia. Quindi, anche se per poesia intendiamo l’arte di comporre versi, una vera distinzione tra poesia e prosa è impossibile (oltreché, a mio parere, inutile ai fini artistici). Molto più interessante, per un discorso sulla scrittura verbo - visiva, è cercare un confine tra poesia e arti puramente visive. Per far questo, un criterio apparentemente più sicuro, rispetto a quello del verso, è il criterio della riproducibilità. La poesia, nel senso letterario del termine, è riproducibile, come ogni arte fondata sull’uso dei caratteri tipografici : chiunque può ottenere una copia di un testo poetico copiandolo o fotocopiandolo : la copia ottenuta non è diversa né meno pregevole del testo di partenza (se il testo è un calligramma bisognerà tener conto dei caratteri usati, della loro disposizione nel foglio, della loro eventuale distorsione e del colore dell’inchiostro ; ne consegue che il testo potrà essere copiato solo da chi possiede la un computer o, nei casi più semplici, una vasta gamma di trasferibili). Al contrario, la copia di un Van Gogh viene chiamata “falso”, a ricordarci che la pittura non è affatto riproducibile (a meno che si riesca a riprodurre esattamente le singole pennellate, utilizzando gli stessi colori del quadro originale !) : se lo fosse sarebbero giunte fino a noi un gran numero di pitture della Grecia antica, così come ci sono giunti molti versi di Saffo. Stesso discorso si poteva fare, fino a vent’anni fa, per tutte le arti puramente visive e per qualunque opera che presentasse dei colori : anche fotografando un’opera otteniamo colori diversi da quello originali e se l’opera in questione è una fotografia non possiamo riprodurla senza disporre del negativo ( cioè possiamo ottenere una copia di una foto solo a partire da qualcosa che non è la foto). Fino a vent’anni fa il criterio della riproducibilità ci sarebbe stato utile per stabilire il confine tra il campo della poesia e quello delle arti puramente visive, collocando la poesia concreta nel primo e la poesia visiva nel secondo. Oggi, con la diffusione del computer, possiamo riprodurre perfettamente, se non i colori di un’opera pittorica, almeno quelli di un testo di poesia visiva (una volta accertato che i tre colori primari siano esattamente gli stessi in ogni computer, ad ogni colore si associano tre numeri, uno per ognuno dei primari, a indicarne la composizione). Adottando oggi il criterio della riproducibilità, la Poesia Visiva sarebbe allora da collocare nel campo della poesia. Tuttavia, io credo che nessuno, di fronte alle opere prodotte dalla Poesia Visiva, dirà che si tratta di poesia. Un modo secondo me utile per semplificare il problema, è porre la poesia (unitamente alla prosa e a tutta l’arte fondata sui caratteri tipografici) nell’insieme che comprende tutto ciò che si può fare, su di un foglio, con le lettere integre (dal momento che una lettera spezzata perde la sua identità e diventa una semplice immagine). Così l’integrità della lettera diventa il confine al di là del quale si è più vicini alla pittura che alla poesia. Inoltre, in questo modo è lecito chiamare poesia la Poesia Concreta (o almeno la gran parte della produzione concreta) ma non la Poesia Visiva, perché non fondata esclusivamente sull’uso delle lettere. Tirando le somme, è evidente l’esistenza di due tipi distinti d’artista verbo - visuale : da una parte che è interessato a usare parole e immagini, dall’altra chi si serve solo delle lettere e delle parole per scrivere versi e, allo stesso tempo, per creare immagini. L’esigenza di quest’ultimo è quella di giungere non solo all’integrazione tra parola e immagine ma alla loro fusione (tanto da recuperare, in alcuni casi, l’ideogramma), cioè all’uso delle lettere come materia prima per creare parole e/o versi che siano anche immagini. Questo obiettivo è stato spesso raggiunto dalla poesia concreta, molto più che dalla poesia visiva, in cui l’aspetto verbale e quello visivo si completano l’uno con l’altro restando tuttavia fisicamente separati. Ma proprio perché molti risultati sono stati raggiunti in fase “sperimentale”, la vera sfida per il futuro è superare questa fase di sperimentazione e considerare la poesia verbo - visuale allo stesso modo di quella “classica” e delle altre arti : così come esiste il poeta “classico”, il pittore, il fotografo, dovrà esistere il “poeta - visuale” (o come lo si voglia chiamare), ossia il poeta che quando scrive tiene conto anche della forma visiva del verso. Auguriamoci che le nuove generazioni sappiano trarre vantaggio dalle sperimentazioni compiute in questo secolo e che siano capaci de stabilizzarle in un “nuovo” genere letterario. Auguriamoci insomma di avere a disposizione, nei secoli venturi, una Divina Commedia della poesia visuale. Parlo dei secoli venturi perché oggi il gap tra la letteratura classica e quella visiva è ancora molto evidente : una conseguenza di ciò è il fatto che, anche tra coloro che hanno compiuto studi umanistici, pochissimi conoscono la poesia concreta e la poesia visiva e, tra questi, pochi sono capaci di “leggere le immagini” di un testo visivo. Ciò è comprensibile, se pensiamo che la scrittura verbo - visiva si è sviluppata solo in questo secolo e che sono ancora pochi gli scrittori che l’hanno adottata definitivamente e ancora meno quelli che hanno elaborato uno stile personale di scrittura visiva. I più sono ancora cauti esploratori di un continente nuovo, ancora ai margini del mondo letterario. Le prospettive per il futuro, a mio parere, sono più ampie di quanto possa sembrare. Considerata la crescente importanza delle immagini nella nostra vita (le immagini, al contrario delle parole, possono essere capite da ogni cittadino del pianeta), non mi sembra fuori luogo individuare nella scrittura visiva l’unica via (insieme all’ipertesto) che la poesia può percorrere per godere dell’attenzione di un pubblico più vasto, come accade per altre arti, ad esempio la narrativa e il cinema.
Testo di Alessio LIBERATI
UN PO’ DI SILENZIO E’ MEGLIO
Stasera sono morto eppure cammino. Cammino dentro il tempo con il tempo che
muore di guerre di vergogna. Un tempo anarchico dove annaspare è sempre più lecito,
tutto organizzato, discusso a tavolino, diplomazia e pistole. E mai i nostri figli
sapranno dell’esistenza di popoli oppressi che il tempo dimentica il tempo uomo
ingordo e potente : Ma quali sono le stelle che illuminano le fosse comuni .......... quali
sono i colori del cielo per Ocalan .......... dove sorge il patibolo .......... dove ama il boia. Chi
può dire in questo tempo non avrai altro boia al di fuori di me. Certo è il mio passo
ormai nel fango della mia impotenza ......... Corrodo vigliacco i miei versi inutili .............
mastico e sputo sul mio essere poeta ......... eppure sono morto stasera e cammino
nonostante tutto. Squame d’acqua / griglie / sensuali / umide .......... Cancerogene
penombre ............. Ora l’orologio scorsoio del tempo / la forca tra le nuvole
............................... IL MONDO. Recitare / tutto / recitare / dobbiamo / ormai /
recitare / attori no / recitare / come vomitare / l’importante è / recitare / anche
nulla / recitare il vuoto / ma / recitare perplessi / forse / nausei / recitare ancora / oggi /
ieri / domani / Il NULLA. Eppure ogni mattina mi alzo mi lavo gli occhi che dormono /
il dentifricio / lo spazzolino / i denti / la profondità / il cesso ........ mi alzo e vado da
tutte le parti .......... tutti i quartieri si svegliano / il mattino è una bella donna che non ha
più voglia d’amare. Contemporaneamente al mio stato dello sforzo incomprendo la mia
guastazione. Oggi il crepuscolo annega l’aria. Passare da tutte le parti ....... frammenti di
cunicolmo esasperano la mia apparente passività / ora quando il cliente ordina nel mio
magazzino / le stelle mi sembrano lontane .......... La sgretolazione più vicina. La mia
poesia ripete continuamente le mie stesse parole. L’uomo dimentica troppo facilmente.
Facilmente tutti gli uomini vengono dimenticati. La dimenticanza è il lato più
affascinante del mio interiore. Tutti pregano utopie. Utopie scalze che sognano l’abisso
e ne posseggono i fondali. I fondali sono secchi / in piena i deserti / vuote sono le lune /
adrenalinici i raggi del sole ............. Ora mi chiedo è utile che parlo se dico quello che
sentite ? Piove stanotte / sono certo / le nuvole hanno il colore della dannazione / i
crepuscoli sono interrotti / due transenne al lato della strada / stanno riparando le
intemperie. Piove stanotte .......... sono certo. Le nuvole hanno il colore della
dannazione / i crepuscoli sono interrotti / due transenne al lato della strada / stanno
riparando le intemperie. Allucinazione organizzata / gli archi divelti dal cavo d’acciaio la
macchina da scrivere / la candela palafitta sulla voce del dolore. Il poeta è fuori posto.
Oggi si pensa a lui, ma lui non è qui, è sicuramente altrove ..................
Ahahahahahahahahahahahah ! Continuare così può procurare malattie molto gravi che
rasentano lo stato tumorale delle idee. Ci sono compensazioni del pensiero che
lesionano lo stato ambrale della meditazione / ritmi sincopati danzano / ........ E io
penso ....... posso arrivare da quelle parti ? .......... NULLA ! Il biglietto è esploso e il
tram è andato all’inferno. L’inferno è pur sempre l’inferno. I biglietti esploderanno
perché i biglietti non sanno disinnescare la matrice. Così l’uomo ha inventato le guerre.
Le guerre sono il lato oscuro dell’uomo. Altri uomini nasceranno per dichiarare guerre.
Ci sono state guerre sante / non dimenticatelo / che sono diventate camposanti. La mia
ultima ri/flessione è che tutto quello che vorrei dire / non lo potrò mai dire / come vorrei
dirlo ........... ma dire è come disfare / disfare è come ammarare / ammarare è come
ammareggiare. Io oggi sono esattamente quello che voi non potete vedere. Se c’è se
esiste una comunicazione quella comunicazione per quanto mi riguarda è un tipo di
comunicazione che può essere morta perché morta è la vena dello scrittore. Oggi è
troppo facile comparire / ma comparire è forse una scrittura ? La mia ultima ri/flessione
verte sul fatto che la postdannazione umana ha generato ragioni che hanno
addormentato nel vuoto il sonno criminale dei mostri. Kossovo strana parola ....... come
guerrabambinomorteper serbiamericanieorchestra .......Ocalanesiliomorteamericanintesta
..... congovernantisinistrichearrembanodadestra. Oggi è il 28 marzo del 1999 DopoDio
......... nella mia città una pioggia piacevole calda. Ma da quelle parti per chi ama la pioggia
piovono bombe ......... se un bambino piange piovono bombe ...... e se un bambino muore
piovono ancora bombe. Io sono qua seduto a dialogare con voi un pò come clintoN alla
Casa Bianca a dialogare con generali a ventisette stelle. Ma lì nessuno sa che la pioggia
oggi mi rilassa ........ E che loro invece mi fanno vergognare d’essere Uomo. I giornalisti
commentano la loro partita di calcio così come commentano le guerre .................. con i
nostri governanti che dicono che questo è necessario e non si può prescindere alla
grande sinistra. Al bar si parla di una guerra discorrendo il sapore della sfoglia quasi
sempre bruciata. I campi di concentramento sono ancora lì al loro posto / sono morti
minati i papaveri / stampelle sono gli sterpi / mutilati i cervelli dell’uomo.
Oggi non parlo più ........... Un pò di SILENZIO è MEGLIO !

A MACCHINA AMNIOTICA
X WILLIAM BURROUGHS
Ai BAMBINI della GUERRA
Al POPOLO KURDO
Testo di Alberto LECCA


IPERTESTO POETICO QUADRIDIMENSIONALE
Arnaldo Pontis ha esposto un’opera ipertestuale realizzata su quattro livelli, ovvero quattro supporti trasparenti sovrapposti e contenenti parole ordinate su uno schema lineare ma tutte parimenti visibili. I quattro livelli sono, nell’ordine, intitolati : La Presenza - La Scoperta - L’Assenza - Il Nulla. L’opera è accompagnata da una nota dell’autore :
Il testo prevede una non sequenziale lettura, quindi per agevolare una libera fruizione da parte del lettore, l’autore non si sente in grado di fornire neppure una ipotesi di “primo percorso di lettura”, queste sono quindi le “Non Regole”.
Non esistono limitazioni all’uso ripetuto di singole parole o porzioni e varianti dello stesso percorso di lettura.
Lo spostamento attraverso le parole del piano bidimensionale creatosi sul singolo livello/pagina è privo di qualunque regola e totalmente libero, sia in senso orizzontale che verticale ed anche in diagonale.
Il transito attraverso livelli/pagina bidimensionali diversi, cioè il passaggio tridimensionale da un livello/pagina all’altro precedente o successivo è consigliato dall’autore con l’utilizzo, durante il percorso di lettura, di particolari “portali di testo 3D” costituiti da parole ricorrenti poste in determinate posizioni ed evidenziate in neretto, ma anche questa non è una regola.
La ricerca della quadridimensionalità testuale è quindi direttamente legata alla dilatazione del tempo di fruizione e lettura soggettivo, nonché al numero di combinazioni sintattiche sviluppabili durante tele lettura, numero del quale l’autore si ritiene non consciamente responsabile.
Oltre al presente modello di Ipertesto 4D, esistono sia una versione cartacea, pubblicata nel 1995 sul numero 16 della rivista cagliaritana di poesia Erbafoglio, che una versione realmente ipertestuale, realizzata in html sul sito internet del progetto di poesia e rumore “Macchina Amniotica” consultabile all’indirizzo web : http ://www.pengo.it/machina
Testo di Arnaldo PONTIS

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