domenica 24 febbraio 2008

2002 - Cosmografie


Presenze e assenze.
Mutazione geologica.
Io che cedo sotto il suo peso.
Subsidenza,
e il mio lento sprofondare.
Ma in verità non cedo
sotto un peso, poiché gli sono sopra,
scendo, sto sopra e scendo, Toboga,
e il suo peso è un tirare
dal basso, un prendere forma attirandomi
giù, sabbia da sabbia,
perch’io riappaia capovolto come
filiale di me stesso
al capo opposto
di questa clessidra genetica.
V. Mangrelli

Le opere di Gianni Atzeni dal titolo “Cosmografie” realizzate tra il 1990 e il 2002 (a Dicembre oggetto dell’esposizione curata dallo stesso artista) testimoniano, attraverso la continua sperimentazione della tecnica incisoria, non solo lo sforzo che lo tiene impegnato in una ricerca paziente tesa a toccare nuovi esiti, ma marcano anche il percorso di un artista che si relaziona con la dimensione spirituale che esiste indipendentemente dai cambiamenti apportati da Internet, dalle realtà virtuali, dalla cibernetica…
Con la tecnica dell’acquaforte e della collografia la sua arte dà memoria a simboli aperti alle suggestioni dell’informale a carattere segnico, immagini di conoscenze primordiali, alfabeti antichi dal tratto veloce ed essenziale che, come in “Contemplazione mistyca”, danno origine a grafie semplici sospese in uno sfondo giallo ocra acceso da guizzi d’azzurro.
Negli “Stati”, complessivamente dieci stampe di piccolo formato, senza multipli, è anche il marcato mescolarsi di luce ed ombra che informa l’immaginazione, per esplorarne gli angoli remoti con sprazzi di luce che sono in alcune stampe piccoli bagliori, si fanno scie luminose in altre, per esplodere come una meteora luminosa al centro, nell’ultima, come in un’aurora polare. Nei sei “Stati”, tre disposti a mo’ di leggio in un lato della sala in attesa del direttore d’orchestra che consenta loro di rompere il silenzio, piccolissimi nella dimensione, la materia è rigidamente contenuta al centro dello spazio bianco che marca ancor più la linearità convulsa della composizione racchiusa come nelle miniature di certi manoscritti del ‘300. Ma, alla fissità, all’ordine, all’affabulazione pacata ed esaustiva nella composizione di quelle, Atzeni contrappone il movimento del tratto, della linea, del graffio, per dare espressione a segni cupi dai quali scaturiscono immagini che richiamano segreti della memoria, dell’immaginario magico. Memorie “dimenticate da lungo tempo, fardello sul nostro fato, sangue che scorre e gesto che si leva dalla profondità del tempo” (RILKE).
Come la musica con le note, la poesia con la parola, l’incisione di Atzeni vuole penetrare lo spirito attraverso la porta del segno e della materia.
In altre quattro grandi lastre vere e proprie installazioni che l’autore ama designare “I guardiani” l’intento di costruire figure reiterate (protagoniste mute della mostra) sembra richiamare, come in un rituale magico, sfere sacre, religiose. Nella lastra e nella carta, come nella corteccia degli aborigeni australiani, viene rappresentato in sequenza il ciclo della vita. Da quelle quattro teste dalla patina scura che richiamano la statuaria Fang o quella dei Senufo della savana sudanese -figure antropomorfe dal capo eretto con sporgenze geometrizzanti-, si allunga e si sviluppa un ventre che genera esseri che la terra (la lastra arriva a toccare il suolo) sembra sottrargli per ricominciare (quattro sonno i ventri partorienti ma potrebbero moltiplicarsi a dismisura) un ciclo vitale perpetuo di vita-morte-vita. Di vero effetto la puntinatura in rilievo il cui spazio bianco perimetra irregolarmente le figure. Cerchietti disposti a distanza regolarmente cadenzata l’uno dall’altro che richiamano le orme lasciate dai danzatori che accompagnano l’evento e suggellano in maniera rituale lo stretto legame tra arte e dimensione religiosa, tra ricerca formale dell’arte che si coniuga con una concettualizzazione di valori espressi con richiami simbolici che affondano nelle radici mitiche, che ci hanno dato origine e forgiato per essere ciò che siamo ancora con “uno spazio interiore che non potrà essere allontanato da noi perché è insito in noi” Anish Kapoor.
Testo di Caterina SPIGA

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